Questa settimana, fra gli impegni di lavoro, ho avuto due giorni di Chianti Classico Collection, due giorni di Scuola Culinaria Cordon Bleu Firenze, l’International Chocolate Awards, la settimana prossima ho il Taste, la fiera gastronomica organizzata da Pitti Immagine… come fare ad uscire dal tema e non parlare di cibo.

Per farlo punto in alto, dedicando questo post allo Chef che ho amato di più nella mia esperienza di fruitore di ristoranti belli. Devo andare un po indietro nel tempo, citando un’esperienza fatta nel 2011, grazie a Giulia, la mia compagna e madre di Vittorio, il nostro pargolo. Ecco, iniziamo con il ringraziare lei, che mi coinvolge nei suoi test gastronomici di lavoro…

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E grazie a lei siamo stati ospiti del Mandarin Oriental di Parigi, struttura centralissima (Rue Saint-Honoré) a pochi passi da Colette, riferimento facile per gli amanti dei gadget chic da comprare in viaggio.

MO Paris era stato inaugurato da poco, frutto di una ristrutturazione difficile a parer mio, visto che il palazzo che lo ospita non ha un pregio particolare.

Non mi soffermo sulle camere, ovviamente ricche e belle, con quell’equilibrio di eleganza e minimalismo che le rendono relativamente anonime. Si potrebbe essere ovunque, a Milano, a Mumbai, a Sidney o a Los Angeles, non ci sono richiami particolari se non alle “immagini-citazione” proprie della catena MO, quindi farfalle, ventagli ed altri richiami orientali.

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Ma ciò che è veramente entusiasmante e seducente sono le zone attigue all’ingresso, dove si inizia ad intuire l’audacia del giardino posto nella corte interna del Palazzo, per poi scoprire di più, via via che ci si addentra.

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Il giardino è ricavato in una corte che poteva essere banale, ma che riempita di piante, un po’ orientali, esuberanti nelle forme, nascondono in una piccola jungla nel centro della metropoli le postazioni dei tavolini e dei divanetti, rendendole appartate e consone a chi vuol godere del lusso con un po’ di intimità.

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Dal giardino, corredato di ampia vasca sempre nell’ottica delle citazioni orientali, si intravede il Caffè 8, zona bar destinata agli aperitivi per la crème parigina.

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Esperienza antropologicamente interessantissima, ci vogliono luoghi come questi per vedere la ricchezza espressa senza freni inibitori, ai massimi livelli, come non ho mai visto nelle seppur ambiziose ed esclusive locations del mondo della moda Milanese.

Ma non ci distraiamo, perchè è proprio dal bar che si ha l’accesso al Camélia, il ristorante condotto da Thierry Marx; il luogo sacro dove avviene la magia, il tempio di degustazione delle libagioni di un grande artista, dove ho goduto gastronomicamente come mai prima!

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La sala è bellissima, la pelle è l’elemento di riferimento, con drappeggi piegati quasi geometricamente alle pareti, a sembrare elementi di un quadro moderno, per ricomporsi nelle sedute, in linee che mi hanno ricordato senza dubbio un ristorante di StarWars.

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Veniamo a Thierry (in confidenza, visto che ho cotanto sentimento nei suoi confronti, mi sento a chiamarlo per nome), rubicondo chef dall’aria sinceramente affabile, eppur raffinato palato che gia dalla fine degli anni ottanta (doveva essere un ragazzo) ha iniziato a collezionare Stelle Michelin, portandosele dietro da un ristorante all’altro, divenendo un punto di riferimento per tutti gli chef francesi e, per ovvia conseguenza, del mondo. MO, senza indugio, ha scelto un autore senza compromessi per il suo bellissimo ristorante.

Perchè mi ha conquistato? Per la pulizia dei sapori, la chiarezza e l’audacia degli accostamenti, l’eleganza delle soluzioni, ma sopratutto, per essere capace di manifestare più anime assolutamente diverse, come se fosse 3 o 4 chef in un corpo solo, con stili tanto eterogenei quanto intercambiabili e riconoscibili.

Bello il piccione in bassa temperatura, niente di sconvolgente seppur perfetto (ma era il 2011 e a me faceva un grande effetto), ma la vera sorpresa è stata vedere accanto due piatti, uno mio ed uno per Giulia, in cui si esprimeva bene questa dicotomia stilistica.

Giulia ha ordinato un carpaccio di capesante, su una base di crema di patate, con una spolverata di caviale ed una corona di fiori di erba cipollina. Un piatto botticelliano, ricco di dettagli, sontuoso ma leggero, allegro e ridanciano.

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Davanti a me invece mi son trovato uno sgombro, a bassa temperatura, nudo, scondito (apparentemente) con due funghetti finferli, tanto per far colore più che per sapore. Ecco, un piatto davvero audace, un pesce fra i più poveri servito in uno degli ambienti più esclusivi del mondo, alla stregua di delicatezze di ben altra fama. Per di più cotto a bassa temperatura, poco condito, di una semplicità quasi imbarazzante, fuoriluogo. Eppure, in questa espressione di sapiente minimalismo, c’era la perfezione dell’esecuzione, sia da un punto di vista ingegneristico (ogni lisca dello sgombro era sparita come per magia, senza tagli visibili, suggestionata ad andarsene di sua volontà per amor della ricetta) che per gusto, nella semplicità di un tuffo dagli scogli nel mar di Sicilia.

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E’ qui che rivaluto i francesi, popolo borioso ed arrogante, ma capace di eccellenze che restituiscono legittimità almeno ad una parte della pomposità che li accompagna.

Per fortuna il prezzo di una cena al MO Paris è riservato a tasche moooolto capienti. Si, è una fortuna perchè, se fa a voi lo stesso effetto che ha fatto a me, non andarci non vi alzerà “l’asticella dell’aspettativa”, e vi lascia liberi di sorprendervi per performance di alto livello ma più facilmte accessibili. Per me ormai sono quattro gli anni in cui nel mio cuore c’è lui, Thierry… ah già… e Giulia naturalmente!

 

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